Un uomo con le spalle larghe, la paura non sa nemmeno che è.

Il titolo viene da una canzone di Francesco De Gregori, ed è perfetto per raccontare una storia. Quella di Lino Fratus, mio amico d’infanzia, che qualche giorno fa è venuto a trovarmi perché voleva conoscere  il mio progetto e fare la tessera dell’associazione. Abbiamo parlato un po’, e ho capito che quello che sto facendo io ora, combattere contro la malattia e cercare la felicità ancora più di prima, lui lo fa da tutta la vita. 

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Lino a Palazzolo lo conoscono tutti. Un omone grande e grosso, che quando ti prende con le sue braccia e le sue manone per sistemarti la schiena ti viene un brivido di paura.

Noi lo conosciamo da sempre, abitava dietro casa nostra. Per la precisione dal 1966. C’erano solo poche case nel quartiere de Gasperi, e pochi bambini. Le tre sorelle Vescia, le quattro Novak, il Lalo Licini, noi tre fratelli Ghidotti, e il Lino. Ci si vedeva da una casa all’altra, ci si incontrava per giocare sullo stradone polveroso, lungo il ‘dugale’ sulla via Romana, nei giardini ancora spogli delle case.

Lino aveva una collezione di modellini di automobili che tutti i maschi invidiavano. Ma poi c’era la faccenda della poliomielite. Era passato da una operazione all’altra – sette in tutto. Lino era diverso da noi, era gracile, aveva le stampelle, faceva fatica a camminare, ma voleva esattamente fare tutto. E anche di più. Compensava il suo problema con una vitalità irrefrenabile. 

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Allora i ragazzi giocavano soprattutto a pallone. All’oratorio, a scuola, in tutti i campetti disponibili, per strada. Chi non giocava a pallone era tagliato fuori. E naturalmente per Lino era una sfida tutte le volte. Voleva stare in campo, ma il massimo che riusciva a ottenere, e nemmeno sempre, era di stare in porta.

Insomma, non era una vita facile, proprio per niente, da ragazzino, e ancora di più da adolescente. Indubbiamente il periodo peggiore è stato quello dell’adolescenza – racconta Lino – ho dovuto lottare contro emarginazione e bullismo.’

A un certo punto, nel quartiere abbiano iniziato a vederlo meno in giro. Si era messo a nuotare. Compensava la debolezza delle gambe con la forza delle braccia. Quando si è ripresentato, sembrava un altro. Non più il ragazzino gracile con le stampelle. Le spalle si sono allargate, le braccia piene di muscoli. E via le stampelle. 

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Lo sport, nuoto e bicicletta mi hanno aiutato tantissimo. Qui non mi facevano giocare a calcio. A Jesolo ero il portiere ufficiale della squadra dei bagnini e guai a chi mi toccava o offendeva.’

Lo sport era diventato il suo riscatto. Andava forte. Racconta ancora. Un aneddoto particolare: iscritto ai campionati studenteschi di nuoto, 200 stile libero, quando entro in piscina un atleta guarda l’amico e riferendosi a me dice: ‘Da quando gli handicappati gareggiano con noi?’ L’ho sentito perfettamente, ma anziché deprimermi dentro di me la rabbia si è trasformata in forza agonistica. Bene, quella gara l’ho vinta io, secondo lui, terzo l’amico. Alla fine della premiazione gli ho detto: ‘Certo che perdere contro un handicappato, che figura, eh?’

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E lo sport è diventata la sua vita, il movimento la sua professione. Fisioterapista. Una bella rivincita, no? Da ragazzino gracile e zoppicante è diventato un omone grande e grosso che aiuta gli altri ad affrontare e risolvere i problemi fisici. Con le sue manone, le braccia muscolose, le spalle larghe e forti da nuotatore è diventato l’emblema della volontà di farcela, proprio dove è più difficile. E anche un problema al cuore l’ha superato di slancio, a bracciate. 

La storia di Lino esprime perfettamente lo spirito di Parkinson & Sport, l’associazione di cui è diventato socio e appassionato sostenitore. Quindi,  ringraziandolo lo abbracciamo, sperando che non ci stringa troppo, rischiando di spaccarci qualche osso. 

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Post scriptum

Per due settimane ho scritto e cancellato alcune righe del pezzo che avevo in testa, in mezzo ai mille impegni che la mia nuova vita mi regala ogni giorno, ma non girava, non riuscivo a mettere nero su bianco quello che provavo. Credo che in qualche modo inconsciamente in me ci fosse la volontà di rendere giustizia al suo coraggio e alla sua forza di volontà e chiedere perdono a Lino per le volte che da adolescente non ho capito il suo dolore. Troppe volte l’ho visto come diverso da me e insieme ad altri ragazzi del quartiere abbiamo creato tra noi e lui una distanza incolmabile e, vista ora da padre e adulto, crudele.

Come spesso succede da un anno a questa parte, domenica ho parlato della mia idea a mio fratello Gil, le sue reazioni, che ho imparato a percepire dal linguaggio del corpo ancor prima delle parole, alle mie infinite e spesso dopate, diciamo dopaminate idee, mi aiutano a capire se devo andare avanti o lasciare perdere, e questa volta il semaforo era verde. Dopo ancora un paio di tentativi andati a vuoto, oggi ho chiesto a Gil se mi poteva aiutare a scrivere il pezzo di cui gli avevo accennato sul nostro amico Lino. Sapevo che non ci sarebbe stato bisogno di dirgli cosa volevo scrivere, lui anche più di me ha vissuto quel periodo della nostra adolescenza ed essendo più vicino, anagraficamente parlando, a Lino, era anche più coinvolto in quella difficile situazione, in cui un bambino non vorrebbe mai trovarsi né da una parte né dall’altra.

Richiesta inviata alle 9 di mattina, alle 16 il pezzo era già bello pronto, l’ho letto con grande voracità e ho pianto, non mancava niente, era esattamente come lo avrei voluto scrivere.

Grazie Gil, grazie fratello, senza il tuo aiuto questo blog e questo progetto non sarebbero la stessa cosa.